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LA SCUOLA CHE (NON) CAMBIA

Cinzia Morea

Abito la scuola da quando avevo 3 anni. Era la scuola Materna dei primi anni 70, gli Orientamenti  erano stati promulgati da poco e c’era un grande fermento.  La relazione con studenti e famiglie stava prendendo nuove forme, si costruiva un nuovo linguaggio per comunicare. Poi la scuola ha continuato ad essere il mio habitat, la mia grammatica, la mia ritualità. Da molti anni la abito anche come genitore, quasi sempre rappresentante di classe quando nessuno vuole ricoprire quell’incarico e per me, che conosco il linguaggio e la ritualità, non è un peso ma un’opportunità. In questi anni è cambiato molto, in questi due mesi è cambiato tutto. Nessuno scambio con gli altri genitori impegnati a gestire le loro ansie domestiche, nessuno scambio con gli insegnanti travolti dalle nuove modalità e da una tecnologia ribelle e difficile da addomesticare. Finalmente però c’è il Consiglio di Classe e allora ci diranno le difficoltà, ci chiederanno come stanno i ragazzi reclusi in casa, ci chiederanno se il dolore di questi giorni difficili ha sfiorato le nostre vite o se le ha travolte. Mi preparo. Immagino possibili collaborazioni, faccio finalmente il gruppo di WhatsApp rifiutato in tempi ordinari per scongiurare il rischio della piazzetta pettegola ma adesso è fondamentale, meno male che c’è. Mi consulto con i pochi genitori che riesco a contattare.  è un’occasione, è l’incontro con il gruppo di insegnanti impegnato ogni giorno ad ascoltare i nostri figli, a offrire loro una finestra sul fuori, sulle relazioni, sulla conoscenza, sul senso da dare a un mondo che cambia così pieno di dubbi, di domande e senza risposte chiare. Il governo ha trascurato i ragazzi, li ha semplicemente ignorati ma la scuola no! Per fortuna ci sono loro, i docenti travolti dalla storia e resilienti, tenaci educatori che finalmente hanno l’occasione di esprimere tutto il loro valore, la loro opera di resistenza creativa alla solitudine, alla povertà culturale, al disagio e alla devianza. Baluardi di cultura che salva, di storia, di letteratura, di arte e di scienza. Ogni giorno dalle loro finestre virtuali lì,  a indicare la via, a gridare forte che la vita è bella perché tutti possano sentire anche quelli che hanno passato la notte davanti alle serie TV, quelli che aprono i social prima, durante e dopo le lezioni, quelli che hanno appena litigato con la madre, quelli che il padre non sanno dove sia, quelli che adesso sono tutti in casa ma è come se fossero estranei, quelli che non si sono mai tolti il pigiama, quelli che tanto è lo stesso. Gli assonnati, gli apatici, gli abulici, gli anoressici, e tutta quella schiera  di  A- come prefisso privativo di chi nega e di chi rifiuta, perché crescere è una fatica quotidiana che ti fa dire no perché non vedi il senso, perché non senti il valore, perché il mondo così non ti piace, ma non sai sognarlo diverso. Ma ci sono i prof, gli insegnanti che resistono per gli A e anche per i DIS. Certo la scuola è inclusiva per definizione, c’è un posto per tutti e soprattutto ciascuno trova il proprio posto, non è come là fuori nel mondo, qui c’è una democrazia intrinseca, perché tutti hanno fatto proprie le parole dei grandi pensatori, dei grandi pedagogisti, dei grandi uomini e delle grandi donne. Questi sono i fari guida e vogliamo che le nuove generazione possano nutrirsi di queste storie, respirarne l’aria, danzarne la musica ma solo perché possano in futuro inventarne di nuove da raccontare domani, dopo domani e ancora in questo flusso senza fine! Con questo animo attendo il Consiglio di Classe, mancano pochi minuti e apro la piattaforma, il coordinatore di classe ha messo il link, per quanto siano mesi che la utilizzo non sono mai sicura di come funzioni ma poi ce la faccio, sono in aula virtuale! Ci siamo tutti? Aspettiamo un attimo, manca qualcuno, sì ora ci siamo, bene cominciamo! E così incomincia la liturgia: le stesse parole, gli stessi concetti, le stesse osservazioni, la stessa retorica che non si sbilancia troppo ma che tanto è colpa dei ragazzi che non si impegnano, che non studiano e che non fanno i compiti. E tutto rimane uguale a se stesso. Avete qualcosa da dire? Bene allora possiamo salutarci. Cambia tutto per non cambiare niente! Lo so, ho vissuto l’ansia precedente alla mia prima lezione in remoto, mi ha travolto. 50 studenti da condurre per cinque ore tra piattaforme, stanze virtuali, condivisioni di schermo e altre cose di cui non avevo padronanza. Non è stato facile e non lo è per insegnanti lasciati soli in un flusso di cambiamento cominciato da tempo, in un sovraccarico di richieste che non tengono mai in considerazione le persone e che a cascata riproduce sullo studente, consumatore finale del sapere, gli stessi meccanismi le stesse liturgie, la stessa frustrazione. È evidente, gli insegnanti hanno bisogno di aiuto! Come si interagisce con i bambini e con gli adolescenti? Come funziona e come si conduce un gruppo? Come si interagisce con le famiglie? E, soprattutto, come risuonano tutte queste dinamiche dentro noi stessi? Non servono nuove patologie da diagnosticare, non bastano nuovi corsi per imparare qualunque cosa, occorre tornare alla relazione educativa, a recuperarne tutto il sapore, tutta la bellezza, tutto il rischio che mette in gioco l’incontro tra le persone. Ora più che mai, ora che sappiamo quanto dolore c’è in un metro di distanza, quanta solitudine in uno schermo suddiviso in francobolli con lo sguardo rivolto verso un punto indefinito. Proprio ora che la relazione ci manca, proprio ora che abbiamo sentito dentro le famiglie, dentro i gruppi amicali, la mancanza di una scuola che ci piace di cui abbiamo un disperato bisogno. Una scuola che fa incontrare i ragazzi, che fa dialogare anche quando sembrano chiacchiere inutili, che fa ridere e che fa piangere. Che fa inventare strategie per copiare i compiti o per non farli proprio, espedienti per studiare solo il riassunto o memorizzare la risposta alla domanda che la prof fa sempre. Una scuola piena di difetti ma più preziosa che mai, piena di rancore di recriminazioni e con tanto bisogno di cura e di riconoscimento, di amore! Già, amore, una parola che sembra fuori luogo, una parola che i bambini si vergognano a pronunciare e che gli adolescenti snobbano come cosa d’altri tempi. Sì, la nostra scuola ha bisogno di amore. Di essere amata da una politica capace di sognare e di investire risorse pubbliche, da dirigenti e da insegnati capaci di mettere le ali, amata dalle famiglie perché punto di riferimento e di sostegno amata dai ragazzi, a modo loro, con la loro ambivalenza, con le loro specificità. Perché ad amarla non rimangano solo quei bambini che alla Scuola dell’Infanzia e alla Primaria hanno la fortuna di poterla riconoscere come il posto più bello del mondo e soprattutto perché non si debbano ricredere crescendo! Perché la scuola sia davvero il posto più bello delle nostre comunità!