Giusta distanza e spirito critico

nella relazione famiglia-scuola-alunni

(Astrid Valeck)1

Ogni anno, con le mie colleghe della scuola dell’infanzia statale “Girotondo” di Meldola (FC) ci confrontiamo su temi educativi differenti. I temi sono individuati dal gruppo di coordinamento della scuole dell’infanzia statali della provincia di Forlì-Cesena, organizzato e coordinato dall’USP di Forlì-Cesena, di cui faccio parte da diversi anni. Quest’anno il tema della ricerca verteva sulla professionalità docente dell’insegnante di scuola dell’infanzia in vista della legge delega. Sin dalle prime battute, le riflessioni con le mie colleghe si sono orientate sul rapporto docenti-genitori. Soprattutto sulle difficoltà che tale rapporto porta con sé. Unitamente alla disanima sulle difficoltà, ci siamo interrogate sulle cause e siamo andate alla ricerca di possibili soluzioni. Il nostro punto di arrivo non vuol essere definitivo, ma solo un invito rivolto a ciascuno ad interrogarsi, ad andare oltre.

Alla ricerca dell’alleanza perduta

Ci siamo chieste dove sia finita quella che Massimo Recalcati, noto psicoanalista contemporaneo, definisce ALLEANZA EDUCATIVA, ovvero quella forma di accordo tra parti istituzionali che dà forza ad entrambe.

Se c’è qualcosa di estremamente difficile è far crescere un bambino. Lo è per un genitore che diventa tale senza il manuale di istruzioni a dargli una mano. Lo è per un insegnante anche dopo tanti anni di studio e tanti manuali.

Non è mia intenzione essere nostalgica, e a dire il vero non mi sento tanto vecchia, eppure il contenuto di una vignetta che circola in internet -della prima parte della vignetta- appartiene alla mia infanzia.

Sono la più grande di cinque figli di due genitori entrambi figli unici, che devono aver vissuto una situazione cui non erano assolutamente preparati, visto che di fratelli con cui condividere e dividere e scontrarsi non ne avevano avuti. Mio padre non aveva neppure fatto il servizio di leva.
Però, trovò le sue strategie, per gestire quel mare di figlioli: una fu quella relativa al taglio dei capelli. Una volta al mese, seduti tutti in fila dal più alto al più basso, rasoio in mano, passava sulle nostre teste: misura unica centimetri uno.
Fino all’età di 12 anni mi hanno scambiata per un maschio!
L’altra era relativa all’autorità della maestra: quello che diceva era oro colato, se soltanto provavo a raccontare qualcosa di ciò che era andato storto durante una giornata di scuola era già scontato che quella in torto ero io. Non c’era margine di dialogo, non c’era nessuno a consolarmi.
Sinceramente trovarmi alla soglia dei 50 anni, direttamente dall’altra parte della vignetta, mi scoccia non poco. Quando arriva il tempo in cui anche io ho ragione?!

Ogni genitore è sicuramente alla ricerca del meglio per il proprio figlio, almeno vogliamo pensarla così, ci fa stare bene pensare in questo modo.

L’infanzia è un’età difficile, un’età di dipendenza che richiede ad un genitore attenzioni costanti fino allo sfinimento. Appoggiarsi alla scuola significa alleggerirsi. Dividere il compito con qualcun altro fino a quando i propri figli non sono abbastanza grandi da fare da soli e il genitore possa tornare ad essere uomo o donna a tutto tondo.
Un genitore non nasce imparato, ma impara giorno per giorno mettendosi in ascolto del proprio cucciolo, osservandolo. Non ha un manuale di istruzioni, come dicevamo prima, e ogni figlio è a sé. Sono più i fallimenti dei successi. Arrivati alla soglia dell’adolescenza -quando un genitore vorrebbe tirare un sospiro di sollievo- i figli sono pronti a rovesciargli addosso tutto quello che non sono stati o che non hanno fatto o che non hanno capito. Insomma danno ai loro genitori il colpo di grazia.
Come consolazione i genitori, hanno dalla loro la carta del futuro e in cuor loro si ripetono: “Aspetta di diventare tu genitore…ti auguro la stessa trafila!” pensano con un pizzico di vendetta.
Ma quando il frugolino nasce, osservano il capolavoro cui sono riusciti a dare vita e lo vedono proiettato in un futuro di grandezze, che spesso non è quello della realizzazione autentica di sé, ma quello di primeggiare sugli altri, soddisfacendo i desideri dei familiari. Quello del primeggiare ad ogni costo, sia esso un compito in classe o una partita di tennis è qualcosa che appartiene alla nostra cultura post fordista, la cultura della produzione e del consumo che ha portato l’individuo ad essere al centro dell’universo. Ad arrivare primo, ad essere vincitore in qualcosa. La necessità del genitore diviene, quindi, quella di aver generato un genio.

Ogni scarrafone è geni’ a mamma soja

Ogni bambino nasce, quindi, con un destino da onorare. Destino che deve essere soddisfatto a qualunque costo, e che costituisce un peso gravissimo sia per il figlio, sia per i genitori. Determina un senso di inadeguatezza e di sofferenza.

La storia dell’uomo non è fatta solo di geni. Anzi il paradosso vuole che spesso nel tendenzioso tentativo di assimilazione-omologazione i veri geni passino per incapaci. A tal proposito, suggeriamo il film “Stelle sulla terra” 2.  Ma, a parte i geni non riconosciuti, nel mondo c’è sempre stato anche chi era un po’ più lento e non è detto che sia negativo avere altri tempi, altre priorità, altri modi di imparare e di guardarsi intorno.

Resta il fatto che i figli, come gli alunni desiderano essere visti.

Lo sguardo ha un’ampia parte in educazione.

L’atto del vedere, in questo caso, implica che si vada oltre ciò che gli occhi di genitore vorrebbero che fosse e che lo stesso si ponesse in ascolto e prestasse attenzione ai segni che i figli gli inviano.

L’atto del vedere e il principio dell’essere visti implicano l’azione della collaborazione tra insegnanti e genitori, la considerazione che l’insegnante è un professionista che opera in un contesto sociale allargato mentre il genitore ha l’occhio globale sul tempo e la vita oltre la scuola e negli affetti familiari. L’incontro di questi due sguardi, che è contatto (ci riferiamo alle considerazioni esposte da J. Derrida proprio si questo tema) è quello che genera collaborazione, lo stesso che dovrebbe consentire ad ogni bambino di individuare la propria strada: la via per l’espressione autentica di sé. Un pero genera pere, se produce pomodori oltre ad esserci qualcosa che non va, fa vivere alla pera mancata un senso di inautenticità.

 

Io speriamo che me la cavo

Quello che ci pare di notare negli adulti è una perdita di capacità nel ruolo genitoriale in bilico tra una pesante ingerenza nella professionalità educativa dei docenti e la surroga alla scuola dei compiti educativi prettamente familiari.

Avviene che chiunque si senta in dovere di dire come, cosa e quando un insegnante debba o non debba fare. Pur accettando il beneficio del dubbio -da cui siamo abitate quotidianamente- la parola professionista reca in sé la preparazione cui ogni insegnante si accinge nel momento in cui sceglie questa professione.

La causa di questa ingerenza, a nostro avviso, è ravvisabile nella globalizzazione/diffusione massiccia dell’informazione. Informazione spesso superficiale e tendenziosa che passa attraverso i social, internet e la tv e che porta – chiunque – a ritenersi esperto in ogni campo del “Sapere”, senza vagliare criticamente quanto ascolta o legge.

 

Dice Tiziano Terzani “Tutti credono di sapere tutto, tutti si sentono in grado di giudicare. [..] la caotica, indiscriminata valanga di informazioni prodotte da internet ha creato quell’ormai diffuso sapere a metà che è la peggiore, la più pericolosa forma di ignoranza. In questo vuoto di vera e onesta conoscenza, persino il buon senso viene meno e ogni ciarlatano finisce per avere buon gioco con la gente” 3
Un insegnante è un professionista, proprio come lo è un medico, e proprio come non ci si può improvvisare medici, non ci si può improvvisare insegnanti. Non nella scuola. È vero che nella nostra vita incontriamo maestri che non lo sono di professione. Persone per noi profondamente importanti, capaci di direzionare la nostra vita, persone che spesso sono maestri in modo inconsapevole, pensiamo ai mèntori. I maestri cui qui ci riferiamo sono quelli che hanno a loro sostegno l’intenzionalità. Massimo Recalcati dice che l’insegnante è colui che lascia un segno. Chi sceglie la professione di insegnante sa di affrontare un lungo percorso formativo che non termina con l’assunzione in ruolo, ma che prosegue per tutta la sua carriera professionale. È uno studio costante e quotidiano, un’attenzione per i segni che provengono dai bambini, dal contesto, dai colleghi, dalle famiglie e che non è dato una volta per tutte. Non si finisce mai di fare esperienza, di trovarsi di fronte ad incognite per le quali non si hanno risposte e così si deve mettere “in ricerca”.

Al genitore spettano i compiti educativi di preparazione alla vita propri della famiglia. Non possono essere demandati alla scuola.
Personalmente non amo molto i talk show e le trasmissioni televisive, ma un giorno mi sono soffermata su un giudice che ha utilizzato una parola che mi ha incuriosita a proposito del rapporto tra un genitore e un insegnante: la parola era surroga.
Così, non ho spento la tv come faccio di solito, ma mi sono fermata ad ascoltare.
Una bimba di 11 anni precocemente sviluppata, il cui corpo aveva preso 10 kg in pochi mesi, che studiava danza per quattro ore tutte le settimane, era divenuta anoressica.
La mamma aveva denunciato l’insegnante di danza sostenendo che aveva spinto sua figlia a smettere di mangiare e che la responsabilità educativa era dell’insegnante che non si era accorta di quanto stava accadendo alla bambina.
Il giudice, al contrario, disse che toccava ad una madre ed ad un padre accorgersi dei segni del disagio del proprio figlio e che non si poteva surrogare ad un insegnante tale compito materno o paterno. Mi è parso un elemento interessante: il genitore è il genitore e tale compito non può essere surrogato alla scuola.

GENITORI E INSEGNANTI: agitare bene prima dell’uso
Le famiglie dei bambini che frequentano la scuola dell’Infanzia – forse anche per la quotidiana vicinanza, forse per l’età dei bambini, forse per la mancanza di una valutazione che passa attraverso il voto e che, quindi, crea distanza – cercano di costruire con i docenti una relazione amicale pericolosamente inclinata verso relazioni di accondiscendenza.
La mancanza della valutazione nella scuola dell’Infanzia ha i suoi pregi e i suoi difetti. Tra gli svantaggi c’è la mancanza di considerazione da parte delle famiglie. Non tutte, per fortuna, ma l’atteggiamento è generalizzato. Non c’è voto, non c’è rischio di bocciatura ergo quanto mi viene detto a proposito di mio figlio lo considero esclusivamente nella misura in cui soddisfa le mie aspettative. Se così non è, non lo tengo in nessun conto.
La maestra sbaglia.
Valutare ha il significato di fare il punto della situazione e attuare uno scambio proficuo con chi ha parte predominante nell’educazione e nella crescita del proprio figlio.
La scuola dei piccoli non vale poco perché si occupa di piccole vite. Anzi, è proprio perché ha a che fare con un’età fortemente in fase di sviluppo e trasformazione che la sua azione è più pregnante che in altri ordini di scuola. Per questo è così importante la collaborazione tra genitori e insegnanti, intesa come alleanza educativa, di cui si diceva all’inizio. Alleanza che prevede condivisione non solo delle finalità, ma anche dei modi di operare. Condividere strategie educative significa rafforzare sia il ruolo dell’insegnante sia quello del genitore e ci permetteremmo di aggiungere anche quello delle Istituzioni in generale.
È un comportamento umano quello di cercare una relazione positiva con l’insegnante o con il genitore. Quella che occorre è la giusta distanza. I ruoli li dobbiamo sempre aver presenti, da una

parte e dall’altra. E sono ruoli differenti. Come un genitore non può essere l’amico del figlio o della figlia, ma deve essere padre o madre così l’insegnante è e resta insegnante.

La disponibilità al dialogo e all’ascolto di un insegnante non può diventare l’aggancio per cercare complicità.

Un altro elemento emerso dal nostro confronto è quello del libero arbitrio lasciato in mano a bambini di 3, 4, 5 anni. Vi sono molti genitori che lasciano decidere ai loro figli cosa è meglio per loro. Il ruolo genitoriale è sminuito e il senso di onnipotenza già assai ampliato a questa età va alle stelle. I genitori sono marionette i cui fili vengono lasciati in mano ai bambini. Completamente al loro servizio, viaggiano sull’onda emotiva del momento dei loro figli. La conseguenza è la cessione del ruolo genitoriale ai figli, la svalorizzazione del ruolo docente, quella delle Istituzioni e l’incapacità nei bambini di gestire positivamente la frustrazione (fragilità emotiva).

La parola “no” sembra sparire dal vocabolario tra un genitore e il proprio figlio. Sappiamo che è estremamente faticoso mantenere le proprie posizioni, che dire no è più difficile che dire , ma alla lunga paga. Aiuta a gestire il senso di frustrazione, aiuta a riconoscere il ruolo genitoriale di mamma e papà, aiuta a trovare contenimento, ad elaborare strategie nuove, a differire il desiderio, a saper aspettare, aiuta a sapere che la parola data si rispetta. Insegna la coerenza.

 

La mente è come un paracadute, funziona solo se la apri

L’analisi di cui sopra ci ha portate ad alcune considerazioni e proposte:

  1. C’è grande differenza tra il ruolo educativo del genitore e quello del docente che, non dobbiamo dimenticarlo, è una professione. Tali differenze vanno rispettate e mantenute ben chiare nella relazione scuola-famiglia.
  2. è necessario mantenere la giusta distanza nelle relazioni in un segmento scolastico dove la vicinanza e la relazione quotidiana sono strettissime. Si fa insieme, ognuno per la propria specificità. Sì a: sostenere, accompagnare, collaborare, accogliere…no all’accondiscendenza.
  3. individuare spazi e modi per sostenere e guidare i genitori nel loro difficilissimo e insostituibile compito educativo. Imparare a fare i genitori si può. Perché no? Affiancare un corso di preparazione alla genitorialità durante il corso di preparazione al parto.
  4. educare i bambini al pensiero critico sin dalla più tenera età. Non che ciò non sia già previsto o non sia stato previsto in passato nelle varie normative scolastiche, ma evidentemente qualcosa non ha funzionato se oggi ci troviamo nella situazione sopra evidenziata.
  5. Pensiamo che la strada migliore sia rappresentata dalla filosofia. E per parte nostra stiamo già pensando come riorganizzare la nostra scuola e il nostro modo di fare didattica con e per i bambini.

 

Questo mio scritto lo chiudo con una pagina di Tiziano Terzani tratta dal libro “Un altro giro di giostra” che abbiamo scelto come sintesi del nostro pensiero a proposito del fare filosofia nel senso che gli indiani attribuiscono a questo termine e in cui noi ci riconosciamo.

“In tutta la lunghissima storia del pensiero indiano non c’è un Aristotele, un Platone, un Kant o un Hegel. E questo perché la filosofia, nel vero senso di “amore per il sapere” non è mai stata in India un’attività intesa a costruire astratti sistemi di valori, ma piuttosto intesa a dare sostegno e direzione alla vita.

Penso alla mia esperienza con la filosofia. L’ho studiata per tre anni al liceo. Ero anche bravo, prendevo ottimi voti, ma solo ora mi rendo conto di come non capissi assolutamente nulla. Era un esercizio intellettuale, una “materia” come la fisica, le scienze naturali, qualcosa da imparare per fare bella figura alle interrogazioni, per passare gli esami, una roba fine a se stessa. Nessuno di quei bravi professori che mi facevano lezione di filosofia, come fosse un susseguirsi di idee -una che negava l’altra- riuscì a farmi capire che quella “roba” aveva a che fare con la vita.

In India tutti sembrano saperlo. La filosofia qui, non è una forma di ginnastica, non è il monopolio dei colti, non è riservata alle accademie, alle scuole, ai “filosofi”. La filosofia in India è parte della vita, è il filo di Arianna con cui uscire dal labirinto dell’ignoranza. La filosofia è la religione grazie alla quale gli indiani contano di raggiungere la salvezza che nel loro caso è conoscenza. Non la conoscenza “utile”, quella per manipolare (la scienza non è mai stata il loro forte), bensì come dicono i testi sacri, “quella conoscenza che una volta conosciuta non lascia più niente da conoscere”: la conoscenza di sé.” 4

(1) Intervento della scrivente al convegno “006. Mi chiamo scuola. VERA scuola”, Cesena 2 aprile 2016 organizzato dall’USP di Forlì-Cesena
(2) Film Indiano del 2007, regia di Aamir Khan
(3) T.Terzani, Un altro giro di giostra, TEA, Milano, 2004, p. 90
(4) T.Terzani, Un altro giro di giostra, TEA, Milano, 2004, p. 160